Videosorveglianza luoghi di lavoro: sentenza di Cassazione 4331/2013

cassiera_supermercatoCon la sentenza della Corte di Cassazione sezione penale nr. 4331 del 12.11.2013, depositata in cancelleria il 30 gennaio 2014, torna alla ribalta il dibattito sulla videosorveglianza non solo in materia di lavoro; ma anche in quella più in generale della riservatezza personale  diritto garantito dalla stessa Carta Costituzionale.

Il problema della videosorveglianza – che negli ultimi anni è stato sempre al centro dell’attenzione – non si limita alla semplice affermazione di essere spiati continuamente (da occhi indiscreti) stante le numerose telecamere installate, oramai ad ogni angolo di strada, negli androni condominiali, nei supermercati, negli uffici pubblici e privati ecc. quando il fatto se le telecamere siano state installate secondo le disposizioni previste dalla normativa vigente, dai regolamenti e dai provvedimenti emessi dall’Autotità del Garante ed all’uopo è spontaneo chiedersi: come avviene il trattamento? chi è l’amministratore di sistema e la cui figura rispetta le disposizioni del provvedimento del Garante e la durata della registrazione?

A tal proposito, la sentenza in commento, chiarisce ovvero stabilisce cosa è lecito e cosa non lo è in materia di installazione di telecamere le quali contribuiscono – per le forze di polizia –  ad individuare eventuali reati ed i possibili   esecutori degli stessi.

A ciò deve aggiungersi l’ultima trovata circa l’utilizzo di videocamere per prevenire o scoprire infrazioni stradali e quindi installate nei maggiori centri urbani; ottimo escamotage per far cassa da parte dei Comuni.

L’argomento facilmente ci porta a divagare e spostare l’attenzione dalla sentenza della suprema Corte che come già detto contribuisce a chiarire un altro aspetto dell’intera problematica. L’esistenza di telecamere – seppure non funzionanti – non esonera il titolare del trattamento (datore di lavoro o rappresentante legale) da responsabilità circa gli adempimenti preventivi richiesti dall’art. 4 della legge 300/1970. Infatti, l’art. 4 dello Statuto dei lavoratori , rubricato “impianti audiovisivi” così recita: E’ vietato l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori.

Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l’Ispettorato del lavoro, dettando, ove occorra, le modalità per l’uso di tali impianti.

Per gli impianti e le apparecchiature esistenti, che rispondano alle caratteristiche di cui al secondo comma del presente articolo, in mancanza di accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o con la commissione interna, l’Ispettorato del lavoro provvede entro un anno dall’entrata in vigore della presente legge, dettando all’occorrenza le prescrizioni per l’adeguamento e le modalità di uso degli impianti suddetti.


Contro i provvedimenti dell’Ispettorato del lavoro, di cui ai precedenti secondo e terzo comma, il datore di lavoro, le rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza di queste, la commissione interna, oppure i sindacati dei lavoratori di cui al successivo art. 19 possono ricorrere, entro 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento, al Ministro per il lavoro e la previdenza sociale.”

Ad  una più attenta lettura della predetta norma si rileva che essa individua due fattispecie -tra loro diverse- per le finalità di trattamento dei dati.

Per  completezza di informazione un breve inciso è qui doveroso. La lett.a) dell’art. 4 del codice in materia di protezione dei dati personali  (d.lgs 30 giugno 2003, n. 196)  stabilisce come  “trattamento”, qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l’ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, la consultazione, l’elaborazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca di dati;”

La prima fattispecie riguarda un controllo intenzionale ovvero sancisce un divieto di utilizzare delle apparecchiature finalizzate al mero controllo dell’attività lavorativa. Il presupposto della vigilanza sul lavoro, ritenuto indispensabile per l’organizzazione produttiva da parte dello stesso datore, è vietato con l’uso di apparecchiature in quanto l’utilizzo improprio delle stesse potrebbe ledere la riservatezza dei lavoratori ed ancor di più  la loro autonomia di movimento nello svolgimento del lavoro. Salvo  che (seconda fattispecie)  il datore di lavoro per motivi dfi sicurezza anche del personale e per preservare il patrimonio dell stessa azienda (organzzazione ed esigenze aziendali) disponga l’installazione di impianto di videosorveglianza previo consenso delle rappresentanze sindacali (ove esitenti) ovvero mediante una auotrizzazione amministrativa dinanzi all’Ispettorato Provinciale del Lavoro. Anche in questo caso, considerate le numerose istanze preventive pervenute -negli ultimi tempi- presso gli uffici preposti il citato ente ha inteso bene snellire le procedure autorizzatorie mediante un iter semplificativo.

Infatti. con circolare del 16.04.2012 la Direzione Generale per l’Attività Ispettiva del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali per i casi in essa descritta (attività economiche a forte rischio) non necessitano di un “accertamento tecnico preventivo dello stato dei luoghi in quanto sostanzialemnte influenti ai fini del rilascio dell’autorizzazione”. Ciò significa che con una semplice istanza si potrebbe ottenere  il rilascio dell’autorizzazione (senza preventivo sopralluogo) purchè corredate da idonea documentazione indicata nella predetta circolare.

In caso di violazione del citato art. 4 legge 300/1970 il datore di lavoro va incontro a tre diverse conseguenze. La prima è di natura penale: ammenda da € 154,94 ad € 1549,37 od arresto da 15 giorni ad un anno (salvo che il fatto non costituisca più grave reato. In questo caso il contravventore -a valutazione del giudice penale- può essere ammesso all’oblazione con conseguente estinzione del reato. La seconda è di natura civile in quanto i dati eventualmente acquisiti impropriamente dal datore del lavoro (registrazione immagini mediante impianto di telecamere) non farebbero testo (ovvero “non hanno valore probatorio”) in un eventuale contenzioso con il dipendente ripreso. Infine, la terza è di natura sindacale (art. 28 dello statuto dei lavoratori) allorquando il datore di lavoro non ha rispettato le procedure di preventiva consultazione dei rappresentanti sindacali ove esistenti.

La richiamata sentenza  ha trattato una violazione da parte del legale rappresentale di una società (gestore di un supermercato) che aveva installato un certo numero di  telecamere alcune delle quali orientate sulle casse senza il preventivo accordo con le rappresentanze sindacali e senza la preventiva autorizzazione dell’ispettorato del lavoro.

La pronuncia  è da intendersi  innovativa in quanto la suprema Corte non ha tenuto conto della difesa del contravventore (il quale dichiarava che l’impianto di videosorveglianza “non era funzionante”) perchè l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori è comunque violato in quanto …”l’idoneità degli impianti a ledere il bene giuridico protetto , cioè il diritto alla riservatezza dei lavoratori, sia necessaria affinchè il reato sussista emerge ictu oculi dalla lettura del testo normativo -idoneità che peraltro è sufficiente anche se l’impianto non è messo in funzione , poichè, configurandosi come un reato di pericolo, la norma sanziona a priori l’installazione prescindendo dal suo utilizzo o meno”.

Fonte: FEDERPRIVACY

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